Fra concentrazione e frammentazione, il settore della musica dal vivo s'interroga sulle vie da seguire in vista di un'estate ricca di eventi.
Alla svolta i promotori di concerti in Italia.
di ALFREDO MARZIANO
Ligabue annunciato il 5 luglio a San Siro (e il 16 all'Olimpico di Roma) in occasione del lancio del nuovo album "Fuori come va?". Santana e Red Hot Chili Peppers, beniamini del pubblico italiano, attesi ad Imola a metà giugno per la quinta edizione dell'Heineken Jammin' Festival, evento clou fra i raduni rock di stagione. E poi Zucchero e Lenny Kravitz (forse coheadliner di un concerto a Roma), ma anche Rod Stewart, di ritorno dopo dieci anni di assenza. A scorrere i cartelloni e i programmi diramati dai promoters, sarà un'altra estate di fuoco per la musica dal vivo in Italia: con molti, moltissimi (troppi?) concerti e festival, tour e rassegne, "eventi" e feste di piazza a solleticare l'appetito e le tasche, invero sempre meno profonde, degli appassionati di musica.
Ma farà caldo anche per un altro motivo quest'anno (e le alte "temperature" registrate nei mesi primaverili lo hanno già fatto capire): perché il 2002, questo è certo, verrà ricordato come un anno di svolta, una pagina inedita nella storia della musica dal vivo in Italia.
L'ora zero di questa nuova era va fatta risalire al dicembre scorso: data in cui il colosso "mediatico" americano Clear Channel Entertainment(proprietario, negli USA, di non meno di 1.300.emittenti radiofoniche nonché della più grande e tentacolare organizzazione di concerti dal vivo) ha fatto il suo ingresso in Italia, inglobando due delle maggiori aziende locali, la Trident Agency di Maurizio Salvadori e la Milano Concerti di Roberto De Luca, fino a quel momento acerrimi rivali e capaci di generare, congiuntamente, un fatturato da oltre 21 milioni di Euro all'anno. E' la fine dell'era pionieristica e "romantica" della musica dal vivo, un "business" che fino ad oggi aveva sempre fatto affidamento sull'estro, l'intuito e le capacità personali di imprenditori/padri-padroni abituati a rispondere solo a se stessi? Il crollo annunciato di vecchi rapporti di equilibrio, con il conseguente rischio di scomparsa per gli organizzatori di spettacoli meno attrezzati sotto il profilo economico? Un segnale preoccupante di globalizzazione, destinata ad appiattire l'offerta e a omogeneizzare il gusto su standard "americani" (tra i programmi annunciati da Clear Channel c'è anche l'importazione in massa dei cosiddetti "family entertainment shows", quegli spettacoli "per famiglie" - musical, balletti, rodei, competizioni sportive amatoriali - che in USA ma anche in molti paesi d'Europa attraggono folle di appassionati)? Forse, chissà: e comunque è ancora troppo presto per tirare le somme. Quel che è già chiaro a tutti, invece, è che l'ingresso della multinazionale leader del settore (sia pure sotto le sembianze ben note e le professionalità rodate di De Luca e Salvadori) ha prodotto nell'ambiente un potente scossone, generando una sequenza di contromosse a catena: gli altri due top promoters della scena locale, Claudio Trotta e Ferdinando Salzano (fino all'anno scorso socio di Salvadori...), sono stati svelti ad unire le forze e a concentrare risorse organizzative, professionali e finanziarie in grado di rivaleggiare con quelle dei concorrenti (i due sono oggi soci paritari nei "brand" Barley Arts e Friends & Partners, si trasferiranno presto in una sede comune a Milano, e annunciano a loro volta un budget di previsione di 21 milioni di Euro per il 2002); ma anche la Indipendente Produzioni dei fratelli Rizzotto e la Live di Andrea Pieroni, nomi di punta della scena "alternativa", ne hanno approfittato per accelerare la messa a punto di una partnership che oggi li vede collaborare attivamente nella progettazione e produzione di eventi e spettacoli.
Che un mondo così individualista, dai tempi eroici di Bill Graham in avanti, si muova oggi in direzione delle " sinergie ", delle collaborazioni e delle alleanze strategiche è già in sé una piccola, grande, rivoluzione. Non erano mancati gli esempi, nel recente passato: ma mai come in questi ultimi mesi si era assistito a una competizione così accesa, a una caccia altrettanto aperta ad artisti e contratti, complici campagne acquisti degne del calcio mercato. Tanto per riassumere i casi più clamorosi: Trotta e Salzano, che qualcuno aveva dato irrimediabilmente per perdenti e costretti a ripiegare sulla loro nicchia di mercato, hanno " soffiato " a Clear Channel un pezzo da novanta come Ligabue. E anche Renato Zero ha deciso di cambiare casacca, accasandosi presso la Di & Gi, quei D'Alessandro e Galli che ogni anno piazzano almeno un gruzzolo di concerti ad alto profilo (quest'anno, tra gli altri, quello di Roger Waters, capace di esaurire in prevendita il FilaForum di Assago).
Chi scorgeva nella multinazionale USA un giocatore destinato a fare piazza pulita, sgombrando in poco tempo il campo da qualsiasi concorrenza, è stato clamorosamente smentito. Ci si aspettava che l'asse Salvadori-De Luca-Clear Channel avrebbe garantito in ogni occasione un prodotto superiore alla somma degli addendi: e invece in alcuni casi non è stato così. Come mai? "È una questione puramente economica", risponde Salvadori, che con De Luca condivide il ruolo di presidente della neocostituita filiale italiana. " Semplicemente, non abbiamo ritenuto opportuno controbattere a delle offerte che ci sembravano francamente fuori mercato e che hanno l'effetto di gonfiare oltre limite i prezzi di ingresso ai concerti. Meglio concentrarsi su artisti in via di sviluppo con cui è possibile pianificare un lavoro diverso e a più ampio respiro, anche in prospettiva internazionale. E non è detto che la corsa ai grossi nomi per garantirsi pubblico e incassi maggiori ottenga i risultati sperati".
A chi sia rivolto il messaggio di Salvadori è chiaro. Ma il suo nuovo partner De Luca nega che con la cordata
Trotta-Salzano si sia venuta a creare, sul mercato, una contrapposizione diretta, faccia a faccia. "Lavoro da ventidue anni in clima di concorrenza e proseguo per la mia strada. La competizione c'è, non si può negare, ma personalmente la trovo stimolante. Globalizzazione? E' un concetto usato a sproposito, nel caso di Clear Channel, se con quel termine si vuole intendere un appiattimento dei linguaggi e dell'offerta. Nessuno, naturalmente, vuole imporre a Ligabue o ad altri di cantare in inglese: ma se hanno preferito altre strade, forse è perché non intravedono le opportunità di crescita che il nostro gruppo può assicurare sul mercato internazionale". "La possibilità di poter finalmente pianificare una strategia coerente di promozione all'estero per la musica italiana", continua De Luca, "è stata uno dei motivi principali che mi hanno indotto ad accettare l'offerta di Clear Channel: penso ad artisti come la Pausini, che è già una star internazionale, a Nek, ad Alessandro Safina. C'è molto da fare, ed è ora di rimboccarsi le maniche". Ma possibile che, nel trattare l'ingaggio dei "big" italiani, la corazzata Clear Channel non sia stata in grado di avanzare un'offerta di pari livello a quella dei rivali? "Di solito si dice che un accordo è valido quando lascia leggermente insoddisfatti entrambi i contraenti", risponde De Luca.
"Evidentemente, in questi casi le cose non sono andate così. Personalmente, in un momento come questo, preferisco stare alla finestra ad aspettare gli eventi: sarà il mercato a premiare e a punire, come sempre".
"Con Ligabue, ma anche in altri casi, si è verificato quanto avevamo pronosticato", ribatte Claudio Trotta. "E cioè che l'ingresso di Clear Channel avrebbe aperto molteplici opportunità professionali anche ad altri promoter, non solo alle aziende coinvolte nell'operazione. Ad un'azione corrisponde sempre una reazione: non solo da parte dei concorrenti, ma anche degli stessi artisti". A proposito dei quali, qualcuno avrebbe colto un certo qual clima di nervosismo, in seguito all'irruzione di Clear Channel sul mercato: quasi che temessero, legandosi alla "multinazionale", una spersonalizzazione artistica, la possibile perdita, in futuro, di interlocutori fidati, o anche la sottoscrizione "obbligatoria" di impegni internazionali magari non desiderati. Trotta è uno dei sostenitori di questa tesi: " Quello che alcuni artisti italiani hanno voluto esprimere nelle ultime settimane mi sembra un messaggio chiaro. Ma ci tengo a sottolineare che nessuno ha 'rubato' qualcosa a qualcun altro: in nessuna parte del mondo gli artisti hanno accordi di esclusiva con i promoters. Anche gli agenti inglesi, che vendono i tour in tutta Europa, e persino molti managers internazionali non hanno un contratto scritto di rappresentanza con i loro artisti: viviamo in un mondo precario in cui gli accordi valgono di solito per una sola tournée, neppure per un anno intero. Gli artisti italiani sono abituati a lavorare con le imprese multinazionali sul fronte della musica riprodotta ma non quando si tratta di suonare dal vivo. Evidentemente, alcuni non hanno gradito la nuova situazione".
Adolfo Galli, che con il socio Mimmo D'Alessandro rappresenta la terza forza in campo (debutto nell'87 con Zucchero e Joe Cocker, concerti di Paul McCartney, Elton John e Tina Turner in curriculum, un fatturato di quasi 9,3 milioni di Euro nel 2001) si mostra sostanzialmente d'accordo: "Magari è solo un effetto temporaneo, ma sembra che con l'avvento di Clear Channel qualche artista abbia temuto di diventare un ‘numero’. Se Renato Zero ha scelto noi per il suo tour primaverile nei palasport non è stato per questioni di soldi: conta ancora molto, per gli artisti, sentirsi importanti, seguiti in tutto e per tutto dal promoter". Rischia di produrre un gioco nevrotico al rialzo, questo nuovo scenario di mercato? Galli lo esclude: "Per noi le cose non cambiano: non abbiamo mai avuto l'ambizione di organizzare sei o sette tournées contemporaneamente come fanno alcuni nostri colleghi, perché in quel modo non puoi occuparti personalmente di tutti i dettagli. Certo -aggiunge l'imprenditore bresciano - sul mercato internazionale la presenza di Clear Channel si fa sentire. Le varie agenzie europee che oggi sono controllate dal gruppo godono di un canale preferenziale, quando un artista legato alla stessa multinazionale decide di andare in tour. Tutto diventa più difficile, a quel punto: se non hai informazioni di prima mano, rischi di arrivare in ritardo con l'offerta. E se Clear Channel o Concert West mettono sul piatto 100 milioni di dollari per comprare un tour mondiale e rivenderlo, noi siamo fuori gioco. E' il mercato in sé che si è fatto più complesso: oggi quando avvicini un artista internazionale hai come interlocutori il manager, il business manager, l'avvocato, l'agente europeo del tour, la casa discografica. E ognuno vuole avere voce in capitolo sugli ingaggi, le strategie promozionali, i partner e le scelte operative. Qui da noi, perlomeno, hai la possibilità di confrontarti direttamente con l'artista" .
Concentrazione di risorse, "merger" e fusioni cominciano dunque a trasformare il business più individualista del mondo della musica: ma poi capita ancora che gli U2, legati sul mercato internazionale alla stessa Clear Channel, contattino il solito Fran Tomasi per le loro prossime date italiane, prima di cancellare il tour europeo previsto per quest'estate. O che i Radiohead rifiutino le offerte dei leader di settore per restare "indipendenti". Segno che la musica dal vivo resta comunque un business condizionato, più di altri, da fattori emotivi, da rapporti fiduciari, da considerazioni di lealtà professionale. E che, al di là dei due o tre attori più importanti, poggia ancora su una galassia di microimprese a conduzione familiare o di impronta artigianale per la distribuzione del prodotto - il concerto, la rassegna canora - sul territorio. Un business che nel 2001 - limitatamente agli associatiAssomusica (116 aziende che coprono, secondo le stime dell'associazione di categoria, il 75-80% del giro d'affari complessivo del settore ) - ha prodotto 1.963 spettacoli (più di 5 al giorno) organizzati direttamente sul territorio, per un incasso complessivo di circa 70,2 milioni di Euro e un numero stimato di circa 4,4 milioni di spettatori. " Un pubblico enorme, rispetto a quello che raccolgono per esempio le rappresentazioni teatrali”, sottolinea il presidente dell'associazione Roberto Meglioli, " e che per i membri di Assomusica corrisponde ad un aumento di fatturato di quasi il 18% rispetto all'anno precedente. Non siamo in grado, dai dati in nostro possesso, di verificare quanta parte di questa crescita sia ascrivibile ad un aumento dei prezzi piuttosto che ad un incremento dell'offerta: ma credo che quest'ultimo elemento abbia inciso in misura preponderante".
In clima di recessione, i prezzi dei biglietti restano comunque al centro del dibattito, specie quando, come è avvenuto di recente, toccano in alcuni casi la soglia dei 40 Euro. Inevitabili le polemiche: ma Meglioli, snocciolando le cifre di una ipotetica "torta" di ripartizione degli incassi, ci tiene a ribadire che non si possono tacciare i promoters di eccessiva avidità. " Su uno spettacolo che si svolge in una sala di media capienza, dai 3 ai 5 mila posti, si può calcolare che poco più del 9 % dell'incasso se ne vada in imposte (IVA) e un altro 9,5% in diritti d'autore, che si pagano anche sui biglietti omaggio. Una percentuale compresa tra il 9 e il 12,5% serve a coprire l'affitto del locale mentre, in condizioni standard, un 15-18% è assorbito dai costi di promozione/affissione e dalle spese generali e di allestimento: non lavorando in spazi dedicati permanentemente alla musica, i locali vanno allestiti e arredati; e anche ambulanze, vigili del fuoco e commissioni comunali di vigilanza sulla sicurezza sono servizi che si pagano. Se si aggiunge un altro 2,5% di spese organizzative, si arriva a oltre il 50 %: considerando che, da contratto, alla produzione e agli artisti spetta di solito almeno il 50-55% dell'incasso, risulta evidente che per un promoter è più facile lavorare in perdita che in attivo". "E lo stesso discorso - aggiunge il presidente di Assomusica, smontando una credenza diffusa nell'opinione pubblica - vale spesso per gli stessi artisti: dedotte le spese della produzione e le retribuzioni al personale che lavora per loro, è facile che gli resti in mano non più del 10% dell'incasso. Gli U2 possono fare 150 mila persone a Reggio Emilia e 30 mila a Las Vegas, ma è evidente che i costi di allestimento dello spettacolo sono gli stessi. E posso dire per certo che dal tour acustico nei teatri in cui aveva 30 persone al seguito Springsteen non ha guadagnato un dollaro". A che pro, dunque, impegnarsi in un'attività così faticosa, se i guadagni spesso non ripagano neanche i costi? È ancora Meglioli a rispondere: "Fino a poco tempo fa, il concerto veniva vissuto dagli artisti soprattutto come un veicolo per generare altri introiti: i diritti d'autore, il merchandising, le vendite dei dischi. Ma ho l'impressione che d'ora in poi, con la crisi in cui versa la discografia, le cose cambieranno: la performance dal vivo assumerà più valore intrinseco, sia come evento unico e irripetibile, sia come 'prodotto' rivendibile su canali come Internet, la pay-TV e i DVD".
Per ora, comunque, la crisi economica non ha fatto vittime come nel retail e nella discografia. "Ma - aggiunge Meglioli - i piccoli operatori sono destinati comunque a scomparire se non trovano nuove forme associative tra di loro, perché i costi di manutenzione di una struttura operativa, anche minima, sono eccessivi rispetto alle potenzialità di lavoro che offre il territorio, soprattutto al Sud". Quali sono le soluzioni organizzative possibili? "E' evidente che un operatore italiano non può competere con Clear Channel quanto a risorse economiche. Può farlo però sotto il profilo della qualità dei servizi e della capacità professionale: mi aspetto la nascita di altre alleanze, ma anche operazioni di 'nicchia' che garantiscano un contributo qualitativo". "La sopravvivenza dei piccoli operatori locali", conclude Meglioli, "è vitale: non dimentichiamo che sono stati loro a lanciare i Ligabue e i Vasco Rossi, dandogli una chance di salire su un palco quando nessuno sapeva chi fossero".
Eppure i " cugini" discografici si lamentano spesso di essere abbandonati a se stessi, quando si tratta di investire nei nuovi talenti. " Mi rifiuto di credere che questo sia un punto di vista condiviso da tutta la categoria", risponde De Luca. "Il mio primo concerto dei Cranberries, in un club vicino a Milano, fece 72 paganti. Ed è stato così anche con Red Hot Chili Peppers, Oasis, Lùnapop o la stessa Pausini che ora - unica artista di sesso femminile in Italia - riempie i palasport: in tutti questi casi abbiamo fortemente creduto negli artisti e rischiato in prima persona". "A un discografico, se un album non vende, può capitare di non recuperare neppure la metà dei minimi garantiti che ha concesso all'artista", ammette Salvadori. "Ma a loro, almeno, restano in mano dei copyright da far fruttare nel lungo periodo, mentre noi non abbiamo garanzie sul futuro". Concetto, quest'ultimo, ribadito anche da Galli: "I discografici investono più di noi sui nuovi talenti? Magari è vero, ma loro hanno un grande vantaggio: contratti in esclusiva che li garantiscono per quattro, cinque dischi e altrettanti anni mentre il nostro lavoro può vanificarsi da un momento all'altro, se un concorrente fa un'offerta che sbanca il mercato".
La crisi di vendite, intanto, ha indotto le case discografiche a tagliare drasticamente i contributi alle tournées di artisti emergenti, come sottolineaSandro Rizzatto, contitolare con il fratello Corrado di Indipendente Produzioni, l'agenzia di Pordenone che lavora con grossi calibri della nuova scena rock come Radiohead, Moby, Coldplay. " Proprio per questo gli artisti rinunciano sempre più spesso a venire in tour in Italia e aspettano i festival estivi per sbarcare nel nostro paese: sono costretti a farlo, se la casa discografica non li sostiene, perché non possono ancora pretendere dai promoters dei cachet abbastanza consistenti da coprire le spese di produzione. Il risultato è che mentre~negli anni scorsi i mesi primaverili pullulavano di tournées internazionali, quest'anno i concerti sono molti di meno: ed è un peccato, perché questa scelta di forza maggiore colpisce molti gruppi artisticamente validi". Penalizzati ulteriormente, aggiunge Rizzotto, dalla cronica mancanza di spazi adeguati in cui esibirsi. " Chi cresce in popolarità si trova immediatamente catapultato dai club da 1000 persone ai palasport da 9 mila, e rischia di bruciarsi. In Italia, i locali da 3-4 mila posti si contano sulle dita di una mano: ce ne vorrebbero almeno una decina, per assicurare sbocchi sufficienti agli artisti di media popolarità".
Sempre più necessario, con i costi che salgono alle stelle e la difficoltà di recuperare gli investimenti "spalmandoli" su un numero adeguato di concerti, ricorrere al sostegno finanziario degli sponsor: che dalla birra Heineken, contitolare del Jammin' Festival, alla Algida e alla Coca-Cola troneggiano sovrani nei cartelloni dei più grandi eventi italiani di musica dal vivo. "Ma attenzione", avverte Trotta (Barley Arts). "In passato è successo più di una volta che abbiano danneggiato il prodotto e l'immagine degli artisti. Ci vogliono sponsor illuminati, capaci di trovare formule discrete, non invadenti, di compartecipazione con l'artista e con l'evento. E a volte si può anche farne a meno: la seconda e la terza edizione di Sonoria, io me le sono fatte da solo". Salvadori (Clear Channel) la vede diversamente: "Quest'anno sulla scena della musica dal vivo ha fatto il suo ingresso una grande azienda (è la Algida, ndr) che ha deciso di sostenere finanziariamente tutte le iniziative di un nostro concorrente (le stesse Barley e Friends & Partners, ndr): a me sembra un elemento di turbativa ingiustificata del mercato". "La Heineken fa lo stesso? No, perché sponsorizza un festival, non una serie di artisti". Su un punto almeno, Salvadori concorda con il concorrente: "E' vero, una sponsorizzazione mal gestita può risultare controproducente al profilo dell'artista. C'è chi non se ne cura e bada solo ai soldi, e fa male. Io li avverto sempre di stare attenti alle scelte che fanno, perché alla lunga gli errori si pagano. Certi artisti dovrebbero preoccuparsi di conservare uno stile e una immagine. E certi organizzatori dovrebbero evitare di accondiscendere ad ogni richiesta dei propri finanziatori per strappare uno spot televisivo in più".
Quanto ad un eventuale sostegno pubblico nessuno sembra farsi soverchie illusioni, nonostante le pressioni di Assomusica affinché i nuovi progetti di legge sulla musica prevedano misure di defiscalizzazione degli investimenti nel settore e provvedimenti che aprano anche ai concerti di musica leggera l'accesso al Fondo Unico Spettacoli. " Con i tagli in bilancio che il governo ha imposto alle amministrazioni comunali c'è poco da sperare. E gli stessi sponsor privati, con i tempi che corrono, hanno tagliato i finanziamenti di almeno il 30%", conferma Galli. D'altra parte la tendenza all'aumento dei costi è inarrestabile e, in parte, anche fisiologica, a dispetto delle economie di scala consentite da un'organizzazione più funzionale e professionale del mercato ("Dieci anni fa eravamo considerati al livello della Turchia", dice De Luca, "mentre oggi siamo sul piano di Gran Bretagna, Olanda e Germania " ).
Si torna dunque al punto di partenza: aumenteranno ancora, i prezzi dei biglietti? " Io sono per una politica di assoluto contenimento", risponde De Luca; "mentre oggi, in qualche caso, vedo circolare prezzi assolutamente inconcepibili. Un prezzo accettabile non dovrebbe superare i 23 Euro: per l'ultimo tour della Pausini, noi li abbiamo fissati a meno di 14 Euro. Calmierare i prezzi si può, ed è un punto fermo della mia strategia". Lo hanno fatto anche i Subsonica, scegliendo un prezzo " politico" di 10 Euro per il tour che promuove l'album "Amorematico". "Può essere una scelta sensata, se - come nel caso dei Subsonica - si sa di poter riempire i palasport", sostiene Rizzotto. "Ma non è neppure giusto che una produzione altamente professionale venga venduta allo stesso prezzo, o quasi, dell'esibizione amatoriale di una cover band. I prezzi italiani restano inferiori a quelli degli altri paesi europei, e noi riceviamo continue pressioni per adeguarci. So per certo che diversi gruppi italiani, che oggi girano con una propria produzione e un proprio staff di tecnici, vorrebbero alzare i prezzi dei biglietto: ma non osano farlo per timore di alienarsi le simpatie del pubblico". Diversa l'impressione di Trotta: "In 23 anni di professione le ho provate tutte, compreso un biglietto a 10 mila lire, a metà anni '90, per un tour nei club di Roger Taylor, il batterista dei Queen. E in ogni occasione non ho mai avuto l'impressione che sia stato il prezzo a determinare il successo o meno di un concerto. Anzi, i biglietti più cari sono sempre i primi ad andare esauriti".
Cosicché la prospettiva di un altro scatto in avanti appare ineluttabile anche al presidente di Assomusica, Meglioli: "Mi sembra un trend difficilmente contrastabile, a cui artisti e promoter dovranno rispondere con un miglioramento della qualità dell'offerta. Poi sarà il pubblico, come sempre, a stabilire se questi livelli di prezzo siano giustificati ed accettabili: in caso contrario, prepariamoci anche ad andare incontro a fiaschi clamorosi".