25 luglio 2014 - Sulla rete è boom dello streaming musicale, ma i guadagni per gli artisti sono sempre meno. Così parte la guerra delle star contro i giganti della Silicon Valley. Mentre YouTube, Google e Amazon avanzano.
Il pianeta della musica digitale è in pieno subbuglio. Il mese scorso YouTube ha minacciato di cancellare migliaia di video di Adele, XX, Arcade Fire, Sigur Ros, Vampire Weekend, Arctic Monkeys,
Radiohead perché le etichette indipendenti che li producono hanno rifiutato di sottoscrivere i nuovi
termini contrattuali proposti dal gigante californiano (un miliardo di visitatori al mese) per un nuovo
servizio a pagamento, YouTube Music Pass, che partirà alla fine dell'estate.
La formula dell'abbonamento - accesso illimitato alla musica e possibilità di scaricarla per ascoltarla
offline - è già offerto da piattaforme come Spotify, Weezer e Pandora, ma finora non da YouTube. I
compensi riconosciuti alle etichette e di conseguenza agli artisti variano a seconda della loro forza
contrattuale. Le tre label maggiori (Universal, Sony e Warner) anche nel caso di YouTube Music Pass
hanno trovato un accordo, le piccole, tra cui XL Recordings, 4AD, Matador, Domino Records, che
rappresentano il 10% del mercato ma anche la musica più innovativa, si sono rifiutate. "Spotify, Rdio,
Rhapsody e altri servizi ci trattano in modo equo", dice Rich Bengloff, presidente della American
Association of Independent Music. "Lo stesso non si può dire per YouTube". Sulla questione è stato
sollecitato persino l'intervento del Commissario europeo per la concorrenza Joaquìn Almunia, cui si sono
rivolte le etichette, sostanzialmente accusando la piattaforma di bullismo. Per ora la "rappresaglia" di
YouTube contro i ribelli è rinviata e si è riaperto uno spiraglio. Ma cosa accadrà in futuro?
La lotta tra Davide e Golia - che ricorda quella nel campo degli ebook tra Amazon e Hachette - si iscrivein realtà in una guerra molto più ampia e sanguinosa tra artisti, etichette di serie A e B, e giganti dello
streaming che sta inesorabilmente rivoluzionando non solo la nostra maniera di consumare la musica ma
minacciando la sopravvivenza dell'industria. "Una volta la musica era strettamente legata al disco: l'unico
supporto per venderla, possederla e riprodurla. Oggi è dentro tantissimi contenitori della rete ed è
diventata subalterna al mondo digitale e alle sue logiche, che le riconoscono un valore economico
bassissimo. La si può trovare ovunque e se ne può ascoltare gratis talmente tanta da creare uno stato di
ubriacatura perenne", dice Bruno Pasini, consulente musicale.
Lo streaming sta diventando sempre più popolare - cosa che non si aspettava nessuno - tanto da aver
arginato il fenomeno della pirateria. Perché "possedere" musica quando possiamo ascoltarla gratis - con i
banner - o con un abbonamento irrisorio (Spotify chiede da 4.99 euro a 9.99 euro al mese)? Ma le
conseguenze sono devastanti. Di fatto sta uccidendo il download ufficiale esattamente come il download
aveva fatto con i cd: secondo dati Nielsen nei primi mesi del 2014 i download di musica digitale negli
Usa sono scesi del 15% per gli album e del 13% per i single rispetto allo stesso periodo del 2013,
mentre il volume dello streaming a pagamento è aumentato del 42%. In Svezia le entrate dell'industria
arrivano per il 95% dallo streaming. Una "super-radio" come Spotify, che in Svezia è nata, è arrivata a
10 milioni di iscritti. E i soliti noti della Silicon Valley si sono tempestivamente tuffati sul business.
Amazon, il mese scorso ha lanciato Prime Music. Google, proprietaria di YouTube, si è appena
comprata Songza, servizio di radio in streaming, mentre Apple, che vede assottigliarsi le vendite su
iTunes, si è aggiudicata a maggio Beats by Dr Dre per 3 miliardi di dollari.
Il mondo delle classifiche si sta adeguando. Nel Regno Unito, dove gli streaming settimanali sono saliti
dai 100 milioni del gennaio 2013 ai 260 milioni dello scorso maggio, le charts ufficiali (UK Top 40)
hanno appena iniziato a contare non solo i download ma anche i dati aggregati di Spotify, Deezer,
Napster, Xbox Music, Music Unlimited, Rara. "È una buona cosa. Per essere giuste le chart devono
riflettere il modo in cui la gente consuma la musica", dice Dan Smith dei Bastille, la cui Pompeii è la
canzone più popolare di tutti i tempi on line.
Secondo le stime di insider come Marc Geiger, capo della divisione musicale di William Morris Endeavor's, in meno di 10 anni gli iscritti allo streaming potrebbero toccare i 500 milioni. Tanta diffusione
è positiva: i musicisti indipendenti hanno conquistato migliaia e migliaia di fan a costo zero di promozione.
"Questi servizi permettono di raggiungere il mondo intero in un istante. Il solo problema di oggi è che tutti
hanno una voce", dice Bob Lefsetz, critico dell'industria musicale americana. "E quelli che si lamentano,
una volta non li ascoltavamo neppure. Ignorateli. Concentratevi sui vincitori. Spargete la voce".
Ma il ragionamento non convince tutti. Qualche mese fa John McCrea dei Cake, ha dato vita a Content Creator Coalition, un movimento che aggrega i creatori di contenuti per fare massa critica contro le grandi corporation. Dice: "Tanto tempo fa le label regalavano musica alle radio nella speranza di guadagnare dalle vendite di quella registrata. Ma ora che la gente non la compra più, non funziona. Vero, essere trasmessi può aiutare una band emergente a vendere biglietti per i propri concerti. Ma è difficile fare i tour a 60 o 70 anni. Ed è disonesto argomentare "Oh, ma voi avete un sacco di esposizione", quando per un brano ascoltato su Spotify veniamo pagati una frazione di centesimo di dollaro".
"Con la crescita di Internet, quello che doveva essere un livellamento utopico del campo da gioco, una
democratizzazione per tutti, sta diventando una forma di apartheid culturale", dice Alison Wenham, chief
executive di Worldwide Independent Network, un'organizzazione che raggruppa le label indipendenti.
"Internet ha contribuito al successo dei colossi, che vengono riempiti e ricavano profitti dai contenuti degli
artisti. Per quanto riguarda la visibilità, parliamone. Per chi non è già un po' conosciuto, è come essere
sulle pagine di un elenco telefonico: per trovarti qualcuno ti deve voler cercare", dice Giordano Sangiorgi,
presidente di AudioCoop e patron del Mei (Meeting delle Etichette Indipendenti) che ha aderito alla
rivolta contro YouTube.
Le grandi label non hanno di che lamentarsi, anche perché in molti casi fanno parte delle società a cui vendono i cataloghi: tanto per capirci, il 25% di Spotify è di tre big, Sony, Universal e Warner. Ma
quanto ricavano gli artisti? Dipende dalle case e dagli accordi individuali, ma si stima che ricevano
appena il 6-10% dei ricavi. Per questo molti di loro - da Radiohead a Coldplay a Bob Dylan e Black
Keys - hanno da tempo ritirato molti dei loro album da Spotify e altri servizi di streaming. In un'intervista
sul sito di Sopitas Thom Yorke ha definito Spotify "l'ultima scoreggia disperata di un moribondo",
ribadendo: "Da musicisti dobbiamo combattere il fenomeno. Quello che sta succedendo è l'ultimo rantolo
della vecchia industria. Una volta morta, cosa che succederà, accadrà qualche altra cosa". Aggiunge
Sangiorgi: "Non è possibile che in Italia YouTube fatturi 800 milioni di euro e i musicisti siano pagati cifre
infinitesimali. Se su un cd da 20 euro una volta prendevano il 30%, oggi una visualizzazione su YouTube
rende lo 0,30%. Vanno rivisti i rapporti di forza. Le aziende devono garantire un equo salario agli operai
della cultura creativa. Il decreto del ministro Franceschini sulla copia privata (la tassa sui dispositivi che
registrano contenuti audiovisivi, ndr) va nella giusta direzione".
Andrebbe ripensato il modello di business. "Ma è molto difficile. Perché questo sistema non è più lineare
ma polverizzato, addirittura liquido, incontrollabile e ancora in evoluzione", dice Pasini. "In più da
consumatori ci siamo abituati a non pagare. E da questa strada non si torna indietro". "Se consumatori e
grandi corporation traggono vantaggi da questa tecnologia, gli artisti ci perdono", sintetizza David Byrne
nel saggio Todo Mundo: How Will the Wolf Survive: Can Musicians Make a Living in the Streaming
Era? "Alla fine il modello non sarà sostenibile, i contenuti si esauriranno. Lo streaming on demand è oggi
come un network di distribuzione di fast food migliore e veloce che non solo elimina i piccoli negozi ma
anche gli agricoltori". Sarà la fine della musica?
Le cifre in Italia
Il fatturato totale della musica in Italia si aggira sui 119 milioni di euro. Di questi, 39 vengono dal digitale
che è così ripartito: 24 milioni dal download, 6 milioni dallo streaming audio (aumentato in un anno del
180%) e 9 da quello video, in lieve decrescita (2%). Gli indipendenti hanno il 35% del mercato dei
singoli e il 25% del mercato degli album. A Faenza i prossimi 26, 27, 28 settembre ci sarà il Festival del
Mei (Meeting delle etichette indipendenti) dedicato a Roberto Freak Antoni in cui, oltre al tema affrontato in queste pagine, si parlerà molto di musica live, e di innovazione e start up. Tra i partecipanti: Tre allegri ragazzi morti, Eugenio Finardi, Zibba, Rezophonic e Francesco Baccini.
Fonte: D la Repubblica